ORIZZONTI CULTURALI ITALO-ROMENI, settembre 2018, anno VIII
La casa editrice Nulla Die ha da poco dato alle stampe questo pregevole saggio del giovane studioso irpino Vincenzo Fiore, dal titolo Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia, che rivela, fin dalle prime righe, l’estrema accuratezza che lo stesso pone nell’affrontare alcuni dei temi-chiave che hanno costellato l’opera del geniale pensatore rumeno. Il volume, infatti, si configura come un’eccellente porta d’ingresso al mondo di Cioran da caldeggiarsi senza dubbio per i neofiti che vogliano penetrarvi e, al tempo stesso, contiene tutta una serie di brillanti intuizioni e una dovizia di particolari, notevole in tal senso l’apparato di note a piè pagina, capace di interessare anche il lettore più avvezzo alle atmosfere dell’autore di Squartamento o lo studioso più ferrato nelle «calunnie all’universo» di marca cioraniana.
Le prime pagine del testo tratteggiano la vita dello scrittore transilvano mettendone in luce alcuni episodi particolarmente significativi tra i quali spiccano la visione della ragazza di cui, da adolescente, era segretamente innamorato assieme al «pidocchio» (intrigante il parallelo che Fiore propone tra Cioran e Søren Kierkegaard: «anch’egli…si lasciò influenzare profondamente da episodi la cui entità reale potrebbe risultare sproporzionata») e la «celebre» frase che la madre di un giovanissimo Cioran rivolse al figlio «se avessi saputo, avrei abortito» con la conseguente realizzazione «di essere null’altro che un accidente e di conseguenza nulla andava preso sul serio, essendo tutto privo di sostanza».
E poi l’esordio con Pe culmile disperării del 1933, il libro in cui è già contenuto tutto ciò che il filosofo andrà rielaborando durante un’intera vita. Così Fiore: «Cioran sviluppa già dalla sua prima opera una filosofia auto-sperimentale, che non è uno strumento di conoscenza, ma una terapia che si serve della scrittura al fine di rendere sopportabile l’esistenza». Lo studioso campano ci propone, appoggiandosi a un ampio ventaglio di citazioni, una «scala della consapevolezza» disegnata, al solito in modo asistematico, da Cioran, che, in una sorta di catastrofe progressiva, procede dalla pianta all’animale ai due stadi umani di «dormienti» e di «veglianti», il cui rappresentante, il più torturato tra gli esseri, «non può che essere un fallito in quanto quest’ultima (la conoscenza) è “nemica dichiarata della vita”» (e viene in mente il Manfred di Lord Byron: «Sapere è patire. Sventura è la scienza. Coloro che più sanno più amaramente devono piangere il vero fato: l’albero della scienza non fu mai l’albero della vita»).
Fiore delinea poi la parabola che ha portato Cioran dal «totale disinteresse per quella “immensa porcheria” che è la politica» al suo breve, delirante avvicinamento alla Guardia di Ferro (sebbene Fiore individui diversi punti di notevole distanza tra il giovane filosofo e il movimento legionario) per rientrare poi in un atteggiamento contrassegnato dal pieno rinnegamento delle posizioni espresse in La trasfigurazione della Romania e dalla sua «crociata contro i fanatismi» che lo porterà a concepire la filosofia come «esercizio di de-fascinazione» e a incarnare la figura dell’«anti-profeta» attaccando senza esclusione di colpi la filosofia stessa, il cristianesimo (così Cioran: «il monoteismo giudaico-cristiano ė lo stalinismo dell’Antichità» e Paolo di Tarso sarebbe «le plus considérable agent électoral de tous les temps») e le ideologie («tutti dovrebbero andare a lezione dai sofisti antichi per apprendere l’arte del relativismo» o ancora «la società – un inferno di salvatori! Quello che vi cercava Diogene con la sua lanterna era un indifferente») in direzione di uno scetticismo radicale («[lo scettico] ha la missione di “vedere le cose quali sono” invece di vagare in illogiche astrazioni concettuali»)… [+]